Di arene e sincerità: ecco perché Calcutta ha vinto

Non scrivo su Stormi da tre mesi. Il motivo è che esattamente un mese fa è uscito per la casa editrice Arcana il mio libro “I Cani. I dischi, i bagni nel mare, l’umanità”. Non è un romanzo, forse nemmeno una biografia, ma lo definirei il racconto di uno dei progetti musicali italiani più importanti degli ultimi anni: I Cani.

Potete trovarlo in tutte le librerie e negli store online. Di seguito qualche link dove acquistarlo:

Rompo il silenzio estivo qui su Stormi solo perché credo ne valga la pena.
Sono stato al concerto di Calcutta all’Arena di Verona il 6 agosto, un paio di settimane fa, e penso sia giusto raccontarvi come è andata.

Arrivo a Verona nel primo pomeriggio. Dalla macchina osservo i suoi palazzi austeri. Mi bastano pochi secondi per ricordare: Verona a me non è mai piaciuta. Sarà quell’atmosfera un po’ intollerante che sempre si respira. Chi scrive ha barba e capelli lunghi e neri e una carnagione piuttosto scura. Le possibilità che un veronese mi scambi per un potenziale terrorista islamico sono altissime. La prova che l’aria che si respira qui non è nelle mie corde arriva pochi minuti dopo quando mi accorgo, a malincuore, di non avere con me gli spicci per il parcheggio. Mi accingo così all’impresa di farmi cambiare una banconota da cinque euro. Al primo bar mi dicono di no, non ce li hanno, nonostante abbiano fila in entrambe le due casse. Penso che potrei rendere tutto più semplice comprando qualcosa e facendomi dare il resto, ma non l’avranno vinta gli infami. Perché devo comprare per forza qualcosa di cui non ho bisogno? Non mi abbasserò alle logiche capitalistiche, così evidenti al Nord. A parlare è un romagnolo, una ridente regione la mia in cui se chiedi a qualcuno da cambiare, incredibilmente, ancora te li danno. Passo al secondo bar: il barista, fighetto all’inverosimile, molto cordiale all’inizio, poco dopo, alla mia richiesta, risponde secco di no e mi guarda come si guarderebbe un pezzente. Decido di provarci un’ultima volta con un’edicola verso il centro. Nel frattempo ho camminato quasi un chilometro dal parcheggio e dentro di me sto iniziando a maledire il Veneto. L’edicolante mi dice che ce li ha ma che non me li darà. Le chiedo perché. Non sa cosa dirmi. Mi dice: vada dal cinese laggiù a chiedere. Senza parole me ne vado verso il cinese. È una ragazza minuta, mi accoglie con un gran sorriso. Vende cover per i cellulari e altre cose non meglio identificate. Alla mia richiesta il sorriso non diminuisce, anzi, mi chiede, li vuoi con monete da due euro oppure solo i più piccoli? Come preferisci tu, le dico. Me li dà, io ringrazio tanto. Benedico i cinesi e giungo alla conclusione che se non ci fossero gli immigrati probabilmente questo sarebbe un paese ancor più di merda. E penso alla nostra Italia ridotta a un ammasso di gentaglia individualista e ignorante, che non farebbe del bene al proprio prossimo nemmeno sotto tortura.

Per fortuna per me però quest’atmosfera di morte e di annullamento dell’umano si dissolve dopo soltanto qualche centinaio di metri, appena si arriva nei pressi del piazzale antistante l’Arena. Si sente già un vociare più positivo. Un gruppetto di ragazzi all’ingresso di un piccolo parco sta cantando “Tua madre lo diceva, non andare su YouPorn”, mi avvicino ancora alla ricerca di un po’ di ombra e di riparo, un altro gruppo di ragazzi è seduto in terra e sta parlando con delle coetanee poco distanti. Bello, anche se banale e un po’ patetico, chiedersi: chissà se oggi nuovi amori sbocceranno? Mi guardo attorno e vedo centinaia di giovani, dai venti ai trent’anni, con gli sguardi accesi. Niente a che vedere con le facce tetre e anemiche dei commercianti di poco fa. Cammino nel piazzale, devo salutare un po’ di gente, amici che non vedo da una vita e altri che non ho mai visto prima e che voglio finalmente incontrare. Non sono più a Verona. O meglio, quanto sarebbe bello se Verona – come qualunque altro posto d’Italia – fosse sempre così? Camminando sento a ogni decina di metri accenti diversi. Uno di Milano, uno sicuramente del Trentino, due ragazze di Roma, Luca Babic dei Pop X onnipresente, alcuni ragazzi di Napoli, altri seduta a terra: uno di loro, alla chitarra, sta cantando “Pesto”. Sembra un film di Monicelli. Cerco di risollevarmi pensando al fatto che questa generazione giunta qui oggi è l’Italia del futuro. E se i ritornelli di Calcutta riusciranno a sopravvivere al ritmo della vita di questi anni e a una società capace di prosciugare l’anima a chiunque forse possiamo ancora sperare. Il simbolo e la sintesi di tutto ciò che spero accada a noi tutti è questo concerto. È Maria Antonietta che piccolissima, con l’aiuto della sua sola chitarra, a passo svelto, arriva davanti alle migliaia di persone di un’Arena in sold out e come nulla fosse prende a cantare, con una precisione e un’intensità che mettono i brividi a ripensarci. È il modo in cui è stato organizzato il tutto, da Bomba Dischi di Ricci, Caucci, Briziobello e Di Giamberardino e DNA Concerti, perché in Italia se ci mettiamo d’impegno facciamo cose che davvero nessun altro. Abbiamo una sensibilità alla bellezza che, come si sa, il mondo ci invidia e se riusciamo a superare l’impasse della nostra proverbiale pigrizia il risultato commuove sempre, anche i cuori più duri, dubbiosi o cinici. Di concerti così ben concepiti non se ne vedevano da tanto, troppo tempo.

Poco dopo la bellissima performance della cantante marchigiana è la volta di Calcutta. Alle sue spalle un maxi schermo, dove per tutta la durata del live saranno proiettate delle incantevoli visual di Filippo Rox Rossi (con illustrazioni di Gio Pastori e Andrea Chronopoulos), tra le luci di Martino Cerati, che alternano cartoon spettacolari a veri e propri momenti di piccola cinematografia, con contributi casual tratti da smartphone degli amici o dello stesso Calcutta o più professionali come un corto di Lettieri e ancora le dirette dal palco, il tutto finemente incastonato in una regia istantanea dalla precisione millimetrica. Tra le comparse dei video non potevano mancare gli amici come Luca Babic e Gioacchino Turù, sempre presente, come il primo, nei videoclip di questi anni, da Cosmo a Pop X. Il grande giornalista sportivo Pardo fa la sua apparizione in una serie di finti spot iniziali multilingua dedicati a una fantomatica “acqua Parda”. Ciò che più colpisce di questo live è l’ineccepibile performance dei musicisti, a cominciare da Calcutta che non fa una piega per tutta la durata del live e ogni tanto chiede: “vi sta piacendo il concerto?”. Attorno a lui musicisti del calibro di Daniele Di Gregorio, quasi il sosia ufficiale italiano di Johnny Depp, che si concede assoli allo xilofono e momenti altissimi al piano – per i più informati che stanno considerando il suo cognome, sì è proprio il padre di Niccolò Di Gregorio dei Pop X – o ancora, immenso come sempre, Giorgio Poi, per l’occasione chitarrista ufficiale di Calcutta. Accompagnano Edo sul palco Alberto Paone alla batteria, Giovanni De Sanctis al basso, Paolo Carlini alla chitarra e Francesco Bellani alle tastiere. Verso metà concerto compare dal nulla anche il suo ex bassista, Francesco Sarsano, che i fan del periodo “Mainstream” avranno come ovvio riconosciuto. Tra i momenti più alti quello con Brunori Sas che, a sopresa, compare sul palco ed esegue “Saliva”, in una performance toccante, di cui, come sappiamo, solo lui è capace. E ancora Francesca Michielin, della quale nel pomeriggio si era già spoilerata la presenza – una fan l’aveva beccata in strada e aveva pubblicato la foto su Facebook – che duetterà con Calcutta sul brano, partorito assieme al cantautore di Latina, “Io non abito al mare” tratto dal suo ultimo album. Il premio per il momento più emozionante va senz’altro alle ragazze succinte che sul finale tenteranno di salire sul palco gridando e spintonando prima di essere placcate dalla security – cose che si ricordano solo nei vecchissimi filmati d’archivio beatlesiani – o ancora sul bridge di “Gaetano”, quando tutta l’Arena si accende delle luci degli smartphone. Finisce tutto e gli occhi di chiunque sono pieni di bellezza. Ci si abbraccia a caso, si sorride, qualcuno canta ancora camminando verso l’uscita. E io mi chiedo, per l’ennesima volta, con che audacia molti di cui ho ben presente i nomi, ma che per decenza loro ovviamente mi risparmierò di citare, parlino di decadentismo della musica italiana. Qui c’è una generazione – non la vostra, dico ai perplessi, che ormai è spenta e non ha più nulla da dire – che rappresenta tutto ciò che resta di giusto e bello in questo paese. Quella genuinità che non è mediocrità e inettitudine, ma solo desiderio di cose semplici e sguardi veri. Qui all’Arena, al concerto di Calcutta, dimentico di essere a Verona, ricordo di essere nel mondo.